Sono 14 dall’inizio dell’epidemia i morti in Italia sotto i 40 anni positivi al coronavirus senza gravi patologie preesistenti.
Lo assicura l’ultimo Rapporto dell’ISS datato 4 novembre sulle caratteristiche dei deceduti positivi al coronavirus.
È bene ripetere il dato: 14 in 8 mesi e 40 mila morti positivi al coronavirus.
Se a questo dato si aggiunge che a morire sotto i 50 anni è l’1,1% dei morti positivi di coronavirus si capisce perfettamente come il rischio di morte di questo virus è strettamente correlato a due condizioni precise:
- un’età elevata, mediamente superiore agli ottanta anni
- la presenza di più patologie importanti preesistenti
Nei periodi giugno-agosto e settembre-novembre l’età media dei morti positivi al coronavirus è salita a 82 anni mentre il numero medio di patologie preesistenti è aumentato a sua volta fino a 3,5. Una media che comporta che 3 deceduti su 4 avessero la bellezza di 4 patologie importanti preesistenti.
Rispetto alla prima ondata dell’epidemia, sempre secondo il Rapporto dell’ISS del 4 novembre, è aumentata in modo significativo la prevalenza nei deceduti positivi al coronavirus di fibrillazione atriale, ictus, demenza, cancro e insufficienza renale.
Ed eccoci nel pieno della seconda ondata, con il numero dei morti positivi con queste caratteristiche in aumento, che ancora non sappiamo l’informazione più importante e decisiva: quanti sono davvero i morti di coronavirus.
Ma abbiamo dati indiziari formidabili perché, come abbiamo detto, sappiamo che i morti positivi sono molto anziani e, soprattutto, subissati di patologie preesistenti importati. Ci si dovrà spiegare bene come facciano anziani ultraottantenni gravati da quattro importanti patologie a morire a causa del coronavirus quando, oltretutto, la causa di morte che appare (o si dovrebbe ormai dire che dovrebbe apparire?) sulle statistiche, secondo regole stabilite a livello internazionale, è la causa iniziale scatenante.
Dunque continuano a non esserci bambini, giovani, e solo pochissimi che stanno tra i 40 e i 60 anni, tra i deceduti positivi al coronavirus. Mentre a morire sono quasi esclusivamente anziani fragilissimi.
Ma cosa vuol dire tutto questo?
Delle due l’una: o il coronavirus non è quella bestia che si dice o c’è una resistenza organica della/nella popolazione italiana formidabile.
Probabilmente c’è una parte di verità in ciascuna di queste ipotesi.
Ma è un fatto grave che la resistenza organica della popolazione italiana non venga mai ricordata, sia sistematicamente misconosciuta. Bambini, giovani, adulti non muoiono perché queste fasce di popolazione oppongono al coronavirus uno stato di salute invidiabile, una costituzione forte e integra.
Mi è capitato di lamentarmi col direttore di un importante quotidiano nazionale perché neppure lui sottolineava convenientemente il peggiorare delle caratteristiche dei morti positivi al coronavirus di questa seconda ondata. Non credo di fargli un torto o rivelare chissà quale segreto a riportare la sua risposta e la mia contro-risposta.
“Mi sembra pacifico ormai che il problema non è la letalità ma la capacità di infezione. E la possibilità che il sistema collassi. O no?”. È stata la sua risposta.
Alla quale ho così contro risposto.
“Ci sono almeno tre obiezioni al tuo ragionamento.
- La prima: è questa una notizia o no? Capperi se lo è, dice che in pratica il virus ammazza solo chi, salvo eccezioni, è anziano e già decisamente malato;
- La seconda: la notizia è, proprio per questo, una formidabile indicazione nel senso della profilassi;
- La terza: la notizia serve almeno ad attenuare la catena drammatizzante che fa sì che, di fronte a un morbo descritto a tinte cupe e drammatiche, ogni livello di intervento e di cura, avendo timore di non essere all’altezza, provi a caricare sulle spalle del successivo quel che spetterebbe a lui di fare. È già successo recentemente col morbillo, quando a seguito di una campagna del tutto sopra le righe si è smesso di curarlo a domicilio per affidarlo agli ospedali. In questa epidemia, vera e seria, salvo equivoci, è questo ciò che si sta verificando e che aggiunge stress (e inappropriatezza) alla rete dei servizi e segnatamente alle strutture ospedaliere”.
Insomma, e per concludere: una parte almeno della pressione indebita sugli ospedali, dai Pronto soccorso fino alle Terapie intensive, è frutto e conseguenza di una gestione altissimamente ansiogena e drammatizzante dell’epidemia, contrassegnata da un rincorrersi senza sosta di DPCM e spalleggiata da un’informazione che rasenta il terrorismo, in cui ciascun livello del servizio sanitario finisce per non sentirsi del tutto all’altezza del compito e in ogni caso che presenta un minimo di incertezza ritiene di agire per il meglio assicurando al paziente le prestazioni di un livello superiore al suo.
Ed ecco che si va verso un nuovo lockdown, dopo quello grezzo e primitivo di marzo-aprile, senza aver fatto una spietata analisi critica di quel che è stato e senza ancora una risposta a domande decisive.