L’annuncio di un “lavoro assolutamente decisivo, concentrato a valutare il subset dei soggetti che si infettano con la variante Delta” non poteva non interessarci. In Medicina contano le prove, e siamo sempre pronti a cambiare idea quando queste sono robuste e fornite da Autori privi di conflitti d’interessi.

La presentazione dello studio di Po Ying Chia, Virological and serological kinetics of SARS-CoV-2 Delta variant vaccine-breakthrough infections: a multi-center cohort study è stato annunciato come capace di chiudere

“… qui (almeno per me) definitivamente, la questione vaccinale: di fronte alle evidenze incontrovertibili il silenzio è d’oro. Da oggi in poi ogni discussione sulla contagiosità e sulla patogenicità dei vaccinati (percorribile finché si vuole in un regime libertario e in un paese in cui davanti ad un boccale di birra si può sostenere qualsiasi tesi) avrà la stessa valenza anticopernicana della ipotesi che sia il Sole a girare attorno alla Terra”.

La ricerca di cui ci occupiamo è frutto della sorveglianza dei casi di COVID-19 a Singapore, dove tutti i pazienti con febbre o patologia respiratoria sono monitorati e tracciati. Tra i 218 casi di malattia causati dalla variante B.1.617.2, 130 non erano vaccinati e 88 lo erano; di questi 71 erano vaccinati con due dosi, 13 con una sola dose o si sono ammalati entro il 14° giorno dalla seconda inoculazione, 4 avevano ricevuto un vaccino non a mRNA.

I vaccinati hanno presentato con maggior frequenza una infezione asintomatica o con decorso clinico più lieve, una riduzione di bisogno di somministrazione di ossigeno e di ricovero in terapia intensiva rispetto ai non vaccinati. Lo studio prosegue illustrando l’impatto della vaccinazione sulla cinetica virologica della variante B.1.617.2. Questo aspetto è affrontato per la prima volta, da qui l’entusiasmo della dichiarazione riportata sopra. Gli Autori hanno utilizzato i cicli di amplificazione (CT) del test PCR come marker surrogato per determinare la carica virale. Il valore mediano iniziale non differiva tra i pazienti non vaccinati e quelli completamente vaccinati (CT mediano non vaccinato 18,8 (14,9-22,7), vaccinato 19,2 (15,2-22,2), p=0,929). Tuttavia, i pazienti completamente vaccinati hanno avuto un tasso di aumento più rapido del valore dei CT nel tempo rispetto agli individui non vaccinati, suggerendo un declino più rapido della carica virale. In pratica, nei vaccinati occorre amplificare di più il tampone per ottenere un valore positivo rispetto ai non vaccinati. Questa osservazione ha condotto gli Autori ad affermare che la vaccinazione contribuisce a determinare un più rapido declino della carica virale, e ciò costituirebbe prova di una più breve durata della contagiosità.

“Sulla base dei nostri dati, sembra probabile che la vaccinazione riduca la trasmissione secondaria, anche se questo deve essere ulteriormente studiato in comunità più ampie” si legge nel testo.

Queste affermazioni non tengono conto di un dato significativo e certo, emerso da altre pubblicazioni: la contagiosità degli adulti che si infettano dura in media 7 giorni dalla comparsa dei sintomi, più altri 2 prima dell’esordio.

Una ricerca sistematica pubblicata da Lancet su 79 studi non ha mai trovato virus vivi e capaci di riprodursi dopo la 9° giornata in nessuno degli studi esaminati, anche se l’emissione di frammenti di RNA poteva in qualche caso durare diverse settimane. Quindi che a 28 giorni dall’esordio di malattia, i cicli di amplificazione siano diversi tra vaccinati e non vaccinati ha poco o nullo significato.

Riportiamo la figura dello studio:

La figura rende superfluo ogni commento: nei primi 5 giorni dall’infezione i cicli di amplificazione tra i due gruppi sono sovrapponibili, le differenze emergono quando il rischio di contagiosità è minino o nullo.

I valori dei CT-si ricorda in un commento che appare nella rivista- sono solo una misura surrogata, non è stata valutata la vitalità del virus attraverso colture virali; il calcolo della dose infettiva mediana della coltura dei tessuti (TCID50)/mL sarebbe uno strumento molto più utile per interpretare i dati, poiché è ovvio che con valori CT superiori a 25-28 si avrebbe bisogno di un’improbabile grande quantità di fluido per infettare un’altra persona. Viene citato lo studio di Buchan B. W. et al.: quando si raggiungono i 33 CT sono necessari 0,007 (TCID50)/mL, cioè 142 ml del campione del paziente per infettare il 50% dei campioni di coltura cellulare.

L’assenza di prove sulla vitalità del virus attraverso studi della coltura virale rende certe valutazioni poco credibili, così come è improbabile, se non impossibile che la contagiosità a 28 giorni dall’esordio dell’infezione, con un valore di 50 di CT, sia reale.

La dimostrazione di una maggiore velocità di riduzione dei cicli di amplificazione non è prova di minore contagiosità clinica. Oltretutto. I test PCR per SARS-CoV-2 non sono stati standardizzati da un unico laboratorio, ma realizzati con prodotti commerciali differenti, tutti convalidati.

Morale: non bisogna mai fermarsi alla lettura dell’abstract, gli articoli vanno studiati per intero, il rischio di prendere una cantonata è reale. Ne abbiamo avuto una prova.