Per molte settimane siamo stati costretti a sospendere le nostre vite, il lavoro, i rapporti sociali, le amicizie, gli affetti, i diritti sanciti dalla Costituzione e le più profonde convinzioni religiose e politiche di fronte al rischio di morire per una malattia, un rischio che ancora oggi non è definito. E, a fronte di misure che continuano ad imporre un distanziamento definito non a caso “sociale”, non abbiamo ancora la risposta alla domanda più importante: “Quanto è letale il Coronavirus?”
La stima è che sia responsabile, ad oggi, di circa 820.000 decessi in tutto il mondo, che abbia infettato più di 23 milioni di persone, ma una risposta definitiva su mortalità e letalità della malattia tarda ad arrivare, e non solo per le difficoltà nell’attribuire al SARS-Cov2 la reale responsabilità del decesso. Quando si manifesta un nuovo virus molto diffusivo, molte persone possono morire ed essere sepolte senza mai essere state testate o senza che siano state sottoposte ad autopsia. Non è mai del tutto chiaro quanti siano morti a causa del virus e quanti siano morti per infarto, ictus o altre patologie. Ma sono ormai passati otto lunghi mesi, ed una risposta sarebbe doverosa, perché non è possibile accettare limitazioni della libertà senza avere una chiara entità del rischio, quello vero, non quello raccontato e interpetrato dalla stampa e dai mezzi d’informazione.
Per morbosità si intende il rapporto fra numero dei casi di una malattia e il numero di abitanti (generalmente su 100.000) nell’unità di tempo (generalmente 1 anno). La mortalità è il rapporto tra casi di morte per una malattia e numero degli abitanti (in genere sempre su 100.000); la letalità è il rapporto tra casi di morte e casi di malattia. Mortalità e letalità sono indipendenti l’uno dall’altro. Il tetano ha letalità elevata, essendo una malattia rara, ma con mortalità molto bassa, data la sua modesta diffusione. Il morbillo aveva una mortalità elevata, data l’estrema frequenza della malattia, ma letalità bassa nei paesi occidentali. Più numerose sono le infezioni asintomatiche, minore è la letalità del virus.
Il tasso di letalità si misura con un indicatore, definito Case Fatality Rate (CFR), per cui L = N/P, ove L è la letalità, N corrisponde al numero totale dei decessi per un certo periodo e P al numero di casi affetti da tale malattia nella stessa popolazione e nello stesso periodo. E’ evidente che le stime iniziali del tasso di letalità possono essere errate perché sono numerose le fonti di incertezza che ne influenzano il calcolo, e può cambiare nel corso dell’osservazione variando, paese per paese, le metodiche di conteggio degli ammalati e dei casi di morte. Una delle maggiori difficoltà nella stima del tasso di letalità è l’accuratezza del numeratore e del denominatore.
Le metodiche di raccolta dati possono influenzarne notevolmente il calcolo; i decessi in caso di comorbilità o per complicanze secondarie possono venir censiti in modo diverso. Nelle epidemie e pandemie poi le risposte del sistema sanitario, l’introduzione di cure efficaci, l’aumentata capacità nel tempo di diagnosticare i casi meno gravi o asintomatici, le misure di contenimento per le fasce a rischio della popolazione, possono ridurre il tasso di letalità. Il virus può mutare nel corso del tempo alzando o abbassando il tasso di letalità.
Oggi l’infezione da SARS-CoV-2 produce forme cliniche meno gravi che nei primi mesi dell’epidemia per la diminuzione della aggressività del virus, o anche per un’assistenza sanitaria più pronta e efficace.
In pratica, per calcolare il tasso di letalità, avremmo bisogno di conoscere:
- Il numero di casi reali, non solo quelli segnalati, che in genere sono solo una piccola parte di quelli effettivi.
- Il numero di decessi effettivi relativi ai casi esaminati.
Un gran numero di casi sono asintomatici (o presentano sintomi molto lievi) e i test non sono stati eseguiti sull’intera popolazione, pertanto viene rilevata solo una frazione della popolazione infetta da SARS-CoV-2, confermata da un test di laboratorio e ufficialmente segnalato come un caso COVID-19. Si stima quindi che il numero di casi effettivi sia di diversi multipli al di sopra del numero di casi segnalati. Anche il numero di decessi tende a essere sottostimato, poiché alcuni pazienti non vengono ospedalizzati e non vengono sottoposti a test. Basando il calcolo (morti / casi) sul numero di casi segnalati (piuttosto che su quelli effettivi), il tasso di letalità sarà sovrastimato. Il case fatality ratio (CFR) nella sua forma grezza, non è né un tasso né un indice di rischio ed è inadeguato a descrivere accuratamente l’andamento della letalità nelle coorti di pazienti. Al momento, il CFR varia tra lo 0.05 % a Singapore e il 14% in Italia e il 15% in Gran Bretagna, con un valore di circa 4% su scala mondiale globale.
Ma è affidabile? Serve ben altro!
Servono analisi approfondite per esplorare la possibile variazione di gravità della Covid-19 nel tempo. Servono analisi di sopravvivenza delle coorti di popolazione, distinte e stratificate per età, genere, malattie pregresse, indicatori di gravità all’ingresso e con il decesso come endpoint principale, ma non unico, valutando come la letalità sia diminuita con il procedere dell’epidemia. Servono, cioè, studi metodologicamente rigorosi sul decorso clinico e la sopravvivenza dei pazienti con Codiv-19 da febbraio a maggio.
Solo una misura attendibile del rischio – se esso fosse realmente alto – può far sopportare la sospensione dei diritti costituzionali fondamentali.
Superata la situazione di emergenza, le misure di “biosicurezza” hanno senso solo a fronte di un rischio concreto, affermare che “il virus non solo non è scomparso, ma può riapparire a ogni momento” è un’opinione. Servono dati incontrovertibili, fornite una risposta certa: “Quanto è letale il Coronavirus?”